Le tensioni esorbitanti possono essere causa di mobbing o di straining: la Cassazione ridisegna i limiti della conflittualità lavorativa

di D. Tambasco -

La recente pronuncia della Cassazione civile, sez. VI, 6 ottobre 2022, n. 29059, ridisegna i limiti giurisprudenziali della conflittualità lavorativa che, in altra sede, è stata individuata come la principale causa di esclusione del mobbing e dello straining (TAMBASCO, Condizioni ambientali e personali di esclusione dell’intento persecutorio: quando viene negato il mobbing o lo straining, Il Giuslavorista, 12 luglio 2022).

In particolare, nel caso in esame una dipendente comunale richiedeva il risarcimento dei danni da mobbing nei confronti del proprio ente di appartenenza, sostenendo di aver subito una pluralità di condotte vessatorie. La domanda giudiziale veniva respinta sia in primo che in secondo grado, considerato che quella emersa in sede di accertamento di merito era semplicemente un’accesa conflittualità tra le parti, non trasmodata in un comportamento persecutorio.

La sentenza si caratterizza per l’innovativo principio di diritto rispetto all’orientamento consolidato in materia di screzi e di conflitti interpersonali nell’ambiente di lavoro.

Infatti, alle origini di questo risalente filone giurisprudenziale si colloca una pronuncia del Tribunale di Torino, sez. lav., 18 dicembre 2002, est. Sanlorenzo, che nel respingere la domanda di mobbing proposta da una lavoratrice per l’assenza “di un coerente piano di terrorismo psicologico”, ha posto in rilievo quale fattore di esclusione proprio “una situazione di conflittualità, reciprocamente alimentata, che indubbiamente rendeva difficile la vita in quell’ambiente di lavoro, ma che non può e non deve essere interpretata in senso unidirezionale”. In quest’ottica, è stato imputato alla ricorrente “di aver sempre affrontato ogni situazione fisiologicamente conflittuale che le si presentava, non certo assumendo l’atteggiamento tipico della vittima di mobbing”, avendo al contrario manifestato “un grado di reattività anche elevato, nei confronti dei colleghi, quando le è sembrato di essere vittima di atteggiamenti ingiusti”.  

Naturale corollario del principio enunciato dal tribunale torinese è la successiva pronuncia della Corte d’Appello di Bologna, sez. lav., 28 aprile 2010, n. 107, che ha introdotto l’ontologica distinzione tra conflitto e vessazione, operante con riguardo al grado di inermità ed incapacità di difendersi del soggetto vessato: se nel conflitto ci può essere e talvolta c’è uno sconfitto, nella vessazione c’è soltanto una vittima sostanzialmente non in grado di difendersi o di difendersi con un minimo di adeguatezza.

Come accennato, la successiva giurisprudenza intervenuta tanto in materia di mobbing quanto in tema di straining (quest’ultima intesa nell’originaria declinazione vessatoria), ha costantemente escluso la sussistenza dell’intento persecutorio nelle situazioni di conflittualità o di tensione lavorativa (ex multis, Cass. 14 ottobre 2021, n. 28120; Cass., 23 marzo 2020, n. 7487 Cass., 5 dicembre 2018, n. 31485; Cass., 10 novembre 2017, n. 26684; nel merito, Trib. Isernia, sez. lav., 14 aprile 2022; Trib. Roma, sez. lav., 10 novembre 2021, n. 9247; Trib. Pavia, sez. lav., 22 maggio 2020, n. 85; Trib. Ivrea, sez. lav., 30 agosto 2010, n. 94).

La sentenza in esame, pur non avendo accolto le domande della lavoratrice per la presenza di un’accesa conflittualità tra le parti, consente tuttavia di focalizzarne meglio i limiti. La Corte di Cassazione afferma infatti che le forti divergenze sul lavoro e le tensioni nei rapporti interpersonali, fisiologiche nei rapporti lavorativi soprattutto se connotati da una relazione gerarchica continuativa e da situazioni di difficoltà amministrativa (cfr. Consiglio di Stato, sez. II, 19 gennaio 2021, n. 591; Cons. Stato 4 febbraio 2015, n. 529; Cons. Stato, Sez. III, 12 gennaio 2015, n. 28; Tar Molise, sez. I, 19 gennaio 2016, n. 23), non possono però esorbitare “nei modi rispetto a quelli appropriati per il confronto umano”, diventando altrimenti “ragione di responsabilità ai sensi dell’art. 2087 c.c.”.

Si tratta certamente di un limite “elastico”, che consente al giudicante di qualificare case by case l’illegittimità della condotta datoriale scrutinata, nell’alveo di un orientamento di legittimità (Cass., 12 luglio 2019, n. 18808) che già da tempo afferma come pur a fronte di atteggiamenti ostili del lavoratore, il datore di lavoro non sia certamente legittimato ad indursi a comportamenti vessatori.

Se quindi, in linea generale, la conflittualità lavorativa vale ad escludere l’esistenza della volontà punitiva del mobber e dello strainer, inibendo in radice l’accertamento della relativa fattispecie illecita, non si può tuttavia affermare che il datore di lavoro, per ciò stesso, possa sempre andare esente da responsabilità, godendo di una sorta di “conflittualità immunitaria”. A tal proposito una risalente pronuncia di merito (Trib. Forlì, sez. lav., 6 febbraio 2003, est. Sorgi) ha affermato, proprio con riguardo all’impiego pubblico, l’obbligo del datore di lavoro ex art. 2087 c.c., 2 Cost. e 97 Cost. di intervenire in chiave preventiva o quantomeno risolutiva dei contrasti eventualmente sorti sul luogo di lavoro tra dipendenti: contrasti che, nel generare uno stato di conflitto, non sono soltanto lesivi della dignità umana di tutti i soggetti coinvolti ma comportano anche la violazione del dovere di buon andamento della Pubblica Amministrazione.

Da ultimo, il principio enunciato nella pronuncia in commento si estende anche allo straining nella più recente declinazione “stressogena”, inteso come “obbligo datoriale di assicurare, anche ai sensi dell’art. 2087 c.c., un ambiente idoneo allo svolgimento sicuro della prestazione, che dunque potrebbe non escludere l’inadempimento se il lavoro si manifesti in sé nocivo per la connotazione indebitamente stressogena”.

Domenico Tambasco, avvocato in Milano

Visualizza il documento: Cass., sez. VIª, ordinanza 6 ottobre 2022, n. 29059

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